In supporto alla campagna #iorestoacasa pubblichiamo un approfondimento sul capolavoro mantovano del Mantegna riportando le parole dello storico sovrintendente Giovanni Paccagnini (1910-1977)
#iorestoacasa
#litaliachiamò
#luoghidipalazzoducale
---
“L’ambiente architettonico, nel quale si sviluppa la composizione pittorica del Mantegna, è una sala a pianta quadrata relativamente piccola, situata nella massiccia torre di nord-est del Castello, di otto metri per lato, coperta da una volta ribassata che s’imposta con una serie di tre lunette su ogni parete e raggiunge al centro l’altezza massima di sette metri. La sala riceve una illuminazione moderata da due finestre, poste all’estremità delle due pareti esterne, sulle cui corrispondenti superfici interne scorre una luce guidata e radente che illumina le pareti principali figurate della composizione, lasciando in penombra lo spazio compreso tra le due pareti interne.
In alto: il Castello di San Giorgio con in primo piano il torrione nord-est al cui piano nobile è presente la "Camera Picta" del Mantegna.
Sotto: pianta e schema assonometrico con indicati gli accessi del percorso di visita attuale e le fonti di illuminazione naturale.
In rapporto a questi dati dell’ambiente reale – che indubbiamente non erano casuali, ma predisposti in funzione della decorazione da sviluppare su quelle superfici – il Mantegna trasformò lo spazio chiuso e scarsamente illuminato della sala in quello aperto e luminoso di un padiglione dipinto sui piani delle pareti, coperto da una calotta centralmente aperta sul cielo col famoso oculo e articolata da fittizi rilievi campeggianti su un fondo di finto mosaico dorato. La calotta è sostenuta da pilastri fra i quali la finzione pittorica pone fastose tende di cuoio dorato scorrenti su cursori. Sulle pareti in ombra le tende dipinte chiudono lo spazio fra i pilastri, come se l’ombra naturale all’interno ne fosse l’effetto, mentre sulle altre due pareti illuminate dalle finestre le tende, tirate da un lato, lasciano libera la visione di un arioso paesaggio e di un cortile ornato da preziosi marmi, che costituiscono gli spazi aperti nei quali sono ambientate le due principali rappresentazioni pittoriche della sala, l’Incontro del marchese Ludovico col figlio cardinale Francesco sulla parete a sinistra dell’ingresso e la Corte di Ludovico riunita sulla parete del camino.
Le quattro pareti dipinte con l'invenzione del "finto padiglione" definito dallo spazio pittorico
Questa struttura compositiva articola lo spazio reale in due zone, quella destinata al soggiorno dei Marchesi e ai loro arredi fra le due pareti in ombra, e l’altra comprendente le pareti esterne sulle quali si svolge lo spettacolo scenico raffigurato nei due menzionati episodi della vita di corte. Il punto di vista è situato nella zona in ombra dove convergono i vertici delle piramidi visive delle composizioni dipinte sulle pareti in luce e nella calotta della volta. Così lo spettatore è posto al centro della rappresentazione e vi partecipa direttamente poiché fra lo spazio reale della sala e quello fittizio che lo amplifica oltre i piani delle pareti vi è una studiata continuità creata, oltre che dalle notate convergenze prospettiche delle composizioni pittoriche verso un unico punto di vista, anche da un insieme di accorgimenti scenici che sottolineano il senso di spettacolo attuale che ha questa straordinaria decorazione.
Vista d'insieme dei due lati principali della Camera Picta
Si ha ad esempio una trasposizione all’interno della composizione pittorica dell’incidenza dell’illuminazione naturale, come se la luce e l’ombra della sala derivassero dalla finzione pittorica e non fossero invece l’effetto della disposizione architettonica dei piani in rapporto alla direzione delle sorgenti di luce dell’ambiente. Anche l’inserimento delle strutture plastiche e architettoniche delle due porte, del camino, dei peducci dà a questi elementi una funzione di stretto collegamento fra lo spazio reale nel quale essi si impostano plasticamente e quello pittorico: il piano superiore del bellissimo camino, dove trasborda l’orlo del tappeto persiano dipinto, s’identifica col piano del cortile, o meglio del palcoscenico dove ha luogo la riunione di corte; sull’architrave della porta al centro della parete di sinistra giuocano o siedono i putti che sostengono la targa dedicatoria; i peducci scolpiti in marmo hanno una continuità nei motivi monocromi della volta dipinti a finti stucchi con un rilievo così illusivo da essere persino ritenuti realmente aggettanti. Si stabilisce in tal modo una interna connessione fra gli episodi architettonici, plastici e pittorici della decorazione, una possibilità di rapidi passaggi visuali fra questi vari elementi, disposti organicamente in uno spazio unitario dove i personaggi della rappresentazione, realisticamente indagati senza indulgenze nella loro chiusa immobilità, hanno una statuaria evidenza, la forza evocativa di un potente ritratto storico di famiglia.
Una composizione scenica così complessa – immaginata dal Mantegna in onore del marchese Ludovico e della moglie Barbara di Brandeburgo (ad eorum decus), che di quello spettacolo figurato erano nello stesso tempo spettatori e attori – presuppone l’intervento di un abile architetto, e nessuno era più idoneo dell’architetto-scultore toscano, qual era il Fancelli, col quale da tempo il Mantegna aveva rapporti di collaborazione e amicizia, per la costruzione della struttura architettonica, in definitiva di origine brunelleschiana, della sala a volta ribassata, che s’innesta con pennacchi e lunette alle pareti, per l’esecuzione dei portali di gusto donatellesco e costruiti in pietra serena, materiale insolito a Mantova dove le poche pietre usate sono di origine veronese, per l’inserimento dei peducci di gusto fiorentino, per lo stesso splendido camino. Ma occorre tener presente, come altrove ho accennato, che il Mantegna, dopo aver mirabilmente raggiunto senza interventi estranei nella pala di S. Zeno di Verona la coralità organica dei vari elementi figurati, non avrebbe certo consentito un’intrusione di forme architettoniche e plastiche non dovute ad una sua diretta progettazione grafica, proprio nel suo più grande capolavoro mantovano, dove l’inscindibile concatenazione di questi elementi con quelli pittorici era più che mai il fondamento di tutta la composizione.”
Da Giovanni Paccagnini, Il Palazzo Ducale di Mantova, ERI Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Torino, 1969, pp.68-72.